I BUONI DEI PRIGIONIERI DI GUERRA ITALIANI DELLA SECONDA GUERRA MONDIALE

(di Stefano Poddi) “La guerra non è che la continuazione della politica con altri mezzi…”, cosi scriveva Karl von Clausewitz (1780–1831) nel suo trattato di strategia militare “Della guerra” (Vom Kriege), al quale  lavorò dal 1818 al 1830 e che venne pubblicato postumo nel 1832.La guerra però, anche se può essere considerata uno strumento politico, quindi frutto di una decisione di organismi politici rappresentanti la maggioranza della comunità, ha effetti ben  più cruenti e devastanti di ogni altro strumento politico, e’ una strada senza ritorno dove ci si gioca il tutto per tutto.

Un conflitto militare, al di là di quanto scriveva, tentandone una razionalizzazione, il teorico militare prussiano, e’ costituito da tattiche e strategie, da uomini e mezzi,  da paura e terrore, da feriti, morti e moribondi.Oltre al grande numero di morti, mietuti fra le fila dei combattenti, ma spesso anche falciati fra i civili,  le guerre producono anche prigionieri di guerra, catturati fra gli avversari durante gli scontri e le battaglie; questi nei primi conflitti venivano uccisi o resi schiavi, cosa che accadeva anche per i bambini, le donne e gli anziani, della tribù o della comunità sconfitta.

Il prigioniero, in questo caso, non era depositario di alcun diritto, la sua sopravvivenza dipendeva esclusivamente dalla sua possibile utilità per chi lo avesse catturato e dalla quantità di cibo disponibile per la sua sopravvivenza.Nel corso dei secoli la figura del prigioniero di guerra cambia in sintonia con lo spirito del tempo, i suoi diritti e il suo trattamento vengono influenzati dall’etica e dalla morale, che con fatica si vanno imponendo nella società civile…

L’articolo continua in “AIC Magazine” Anno I. Numero 1

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